Carissimo amico perduto e ritrovato ogni giorno (Nichi Vendola)

Sulle vie dell’utopia.
Forse l’antica sentinella può finalmente risponderci che la notte sta per finire.

Caro don Tonino,  1

in tutta sincerità non ho ancora fatto pace con la tua morte: non solo perché la tua assenza brucia (e talvolta non riesco quasi a perdonarti per quel salto senza rete che ti ha proiettato oltre l’orizzonte del nostro sguardo). Ma perché dopo è stato davvero il finimondo. Come se, calato il sipario della tua esperienza terrena, la storia umana si fosse avvitata in una spirale nichilista e buia. Come se, a noi sopravvissuti, fosse comminata la pena dell’esilio da noi stessi, dai nostri bisogni di verità e di amore. È stato molto più di una solitudine e di uno smarrimento. Tu eri volato, con le tue ali sfibrate dalle metastasi, nel cielo della “ulteriorità” (ti rubo una parola che mi hai sussurrato l’ultima volta).

Noi invece di colpo eravamo scivolati giù nei dirupi del “pensiero unico”, in uno spazio interdetto alla profezia e alla carità, in un alfabeto capovolto e levantino, in un universo di piccole patrie isteriche e minacciose, dove anche lo spirito santo veniva arruolato come un gendarme atlantico o un controllore orwelliano al servizio del New West. Era come tornare nel cono d’ombra delle catacombe. Tu trasmutato in un’icona rischiosamente consolante, noi pronti per i leoni del Colosseo globale, della fiction seriale e della mass-mediocrità.

Sono passati come un lampo tutti questi anni e ancora sento il vento tiepido di quel pomeriggio di aprile, sulla spianata in fronte al mare azzurro di Molfetta, nella mestizia popolare di quella lunga, lenta, indicibile cerimonia dell’addio. Dieci anni fa. Oppure ieri. O forse è ora. Lo so, caro vescovo, tu intercettasti tra i primi il vento cattivo che soffiava a Occidente. Sulla sequela di Cristo ci indicasti la Via Crucis che portava a Bagdad e a Sarajevo, osando immaginare e poi incarnando – in quella “festa di dolore” che ti fece solcare la terra ghiacciata e incandescente di Bosnia – una traccia di “Onu dei poveri”: che ancora oggi è per noi una pietra angolare.

Ci raccontasti il malessere partendo dal benessere e dalle sue arti marziali e dai suoi valori misurati in Borsa: non basta “consolare gli afflitti”, bisogna “affliggere i consolati”, così ci provocavi. E le tue non erano capriole semantiche o giochi di enigmistica. Sull’asse della tua indignazione girava un intero mappamondo a forma di Golgota: e in ogni povero cristo (disoccupato o immigrato, tossico o carcerato) tu vedevi la “regalità” del dio vivente e ci ammonivi ad accogliere e a donare. Amore, voce del verbo morire: non stavi alludendo a una spiritualità masochista, ma alla sfida permanente della conversione: che è schiudersi agli altri, scacciare i fantasmi della paura delle diversità, conoscere e scambiare e contaminarsi e donare. Fuoriuscire dal recinto del privilegio e dell’egoismo, recidere il filo spinato del pregiudizio nutrito di petrodollari, detronizzare la dinastia planetaria del profitto. Cambiare registro, cambiare pelle al presente, farsi costruttori di strade e pontili piuttosto che di muraglie e di barriere architettoniche. Con-dividere: farsi compagni del mondo, farsi prossimo, coniugare i verbi della conoscenza e della tenerezza per chi normalmente inchiodiamo al legno delle nostre fobie e delle nostre pigrizie.

Lo so, don Tonino, persino l’immagine teologica della Trinità – fusione perfetta di tre entità distinte – era per te l’icona di quella splendida “visione” che hai colto nella più bella delle tue espressioni: convivialità delle differenze. Come un infinito abbraccio dei popoli e delle persone, delle fedi e delle culture. Questa, sui sentieri accidentati di Isaia, è la filigrana della pace che cerchiamo. Sarà necessario, ovviamente, mutare le nostre spade in aratri e le nostre lance in falci. E cioè cambiare in radice modello di sviluppo e forma del potere: liberando la storia umana dalla sua ipoteca di oppressione e di violenza, sradicando dalle nostre lingue ogni codice di guerra, svuotandoci dell’odio che si è lungamente sedimentato nei nostri consessi civili e nei nostri cuori.

Carissimo amico perduto e ritrovato ogni giorno, tu ci lasciasti in dono un seme di passione (che è voce del verbo patire). Fummo confitti (non sconfitti) dai chiodi del conformismo e della omologazione. Eppure continuammo a coltivare quella charitas sine modo che ci sfida e ci interpella, quei “pensieri lunghi” che quasi ci sospendono tra cielo e terra. Continuammo, seguendo la tua ombra buona, a costruire piste di “utopia”: ecco, utopia è la parola che adoperano, con intenzioni di scherno, i trafficanti di realismo, i farisei dei nostri giorni, i burocrati dei silenti genocidi mercantili.

Ma a dispetto di tutte le realpolitik, di tutti i governi e di tutte le cancellerie che ci dettano la lentezza delle loro tregue e la fretta delle loro guerre, ora, gridiamolo don Tonino, ora è il tempo dell’utopia! Perché avevi ragione tu: non andiamo verso la fine, ma verso un nuovo inizio. E io volevo dire al mio pastore, mentre lo penso con nostalgia, che quel suo seme, dopo un inverno fin troppo lungo, ha cominciato a germogliare.

Le oscure catacombe hanno figliato moltitudini di battezzati alla pace. È vero: rombano già i motori della macchina holliwoodiana della “guerra infinita”. Ma ancora più forte si sente, a ogni latitudine del mappamondo, il suono di una nuova coscienza. Forse l’antica sentinella può finalmente risponderci che la notte non è più tanto lunga, che sta per finire. E così sia.

Nichi


Vendola: devo tutto a don Tonino Bello. Diventammo inseparabili. 2

«La sua santità non è stata un codice magico, un’aureola o una nuvoletta: è stato lo sguardo dell’Angelo e un’ala di riserva, con cui ha spiegato a tutti la sua scelta più bella e sofferta, quella di pregare e operare tra gli uomini». Per Nichi Vendola quei 10 anni di sodalizio con Don Tonino Bello, dall’approdo al vescovato di Molfetta fino alla scomparsa, il 20 aprile del 1993, sono difficili da raccontare. Anni di battaglie comuni, lui giovane militante del Pci ad un passo dalla «scalata» in Parlamento, l’altro – il «prete Bello», l’uomo della Pax Christi – a lottare per una Chiesa diversa, più lontana dalla borghesia cattolica e più vicina alla carità.
Spesso tradito dalla commozione, il presidente della Puglia prova a raccontare chi era il «suo» don Tonino.

* * *

Cominciamo dall’inizio: quando e come vi siete conosciuti? Lo conobbi subito, nel primo incontro che tenne a Terlizzi nell’auditorium di monsignor Garzia, nel settembre dell’82. Papa Woytila aveva messo ai margini la teologia della liberazione e quelli come me erano fortemente polemici: vedevano una Chiesa trionfante in «technicolor» che, sotto gli abiti talari e dietro le quinte delle sacre rappresentazioni, si dedicava a maneggi di ogni genere col potere. Malata di temporalismo, la Chiesa era piena di trafficanti e indulgenti: c’era già tutto quello che poi ha portato, in epoca più recente col pontificato di Ratzinger, all’esplosione degli scandali. Non lo ascoltavo con simpatia quel prete così suadente, progressista, affascinante. Polemizzai con lui, lo provocai. Ebbe un modo disarmante di rispondermi: mi sorrise e mi disse «vediamoci, incontriamoci». Io che avevo provato a spiazzarlo, rimasi spiazzato.

Nacque l’amicizia. Sì, ero adirato con la Chiesa, e lui cominciò a farmi leggere i suoi editoriali su «Luce e Vita»: divenne una malattia per tutti, fummo contagiati dai suoi articoli. La bellezza e la scandalosità delle sue parole rispetto al perbenismo piccolo-borghese che impacchettava la vita del Clero in un cattolicesimo pacificato, pronto a fare sconti soprattutto ai potenti, fu un’illuminazione. Don Tonino parlava di disoccupati e carcerati, ci educò al pensiero critico, ci insegnò non a consolare gli afflitti, ma ad affliggere i consolati. Ci spiegò che i poveri non vanno aiutati con l’ottica neo-coloniale e che bisogna dividere con loro non solo il pane. Ecco, quei «terminali muti» della carità dei ricchi, furono la costruzione più farisaica che don Tonino provò a smobilitare.

Vi incontravate spesso? Avevamo colloqui privati frequenti e intensissimi nell’episcopio a Molfetta. Lui seduto su un banchetto umile e l’ospite su una specie di trono. Quando mi guardava avevo sempre la percezione di interagire con un uomo che non aveva retropensieri: ti accoglieva sempre per quello che sei, non aveva mai intenzione di reclutarti, ma di capire. Perché amare è innanzitutto capire. Per don Tonino convertire non è colonizzare, non è ridurre l’altrui diversità alla propria cifra, ma è crescere insieme. Lui cercava lo spazio perché potessero pregare coloro che credono in un dio diverso, lui si faceva pellegrino nel cuore della notte alla ricerca del volto di Dio in quello di un barbone o di un immigrato smarrito nei labirinti della clandestinità. Don Tonino lo ricordo per strada, a celebrare lì l’eucarestia viva, che è comunione tra cielo e terra, benedetta dalla «aristocrazia degli ultimi». La sua missione era una vera inversione semantica: una croce di spine è una corona da re.

Che anni erano, quelli? Eravamo in una fase di passaggio: l’Italia smetteva di essere Paese da cui partono i migranti e diventava Paese in cui arrivano i migranti. Questo percorso di educazione all’accoglienza, di intransigenza con la xenofobia, lo accompagnò nei giorni dello sbarco della «Vlora», i giorni in cui si mescolarono la generosità dei pugliesi e l’ignavia dello Stato, che si ritraeva dai propri doveri di solidarietà. Era lo stesso spirito che lo guidava per strada, a intrattenersi con ragazzi paraplegici o non vedenti, negli scantinati e nelle case: era un uomo che abbatteva tutte le barriere, era capace di abbracciare chiunque senza un codice preventivo. Lui andava incontro, traduceva l’approssimazione nel suo doppio significato: farsi prossimo, avvicinarsi, e nello stesso tempo sapere di sé che si è portatori di un pezzo di verità, perché la verità c’è solo nella relazione, nell’abbraccio con l’altro.

Ma che ci faceva un giovane comunista con un vescovo, per quanto «diverso» dagli altri, in quegli anni? Intanto, era sempre curioso. Mi chiedeva notizie sulle posizioni del Pci nella corsa al riarmo di quegli anni. E mentre parlavo, lui mi ascoltava, ma si guardava sempre attorno perché cercava un dono. Era difficile andarsene via a mani vuote da un colloquio con lui, perché ti considerava un dono. Il suo punto di riferimento era Isaia, il profeta della conversione della società, colui che aveva delineato l’immagine di una società in cui non si producono strumenti di morte ma di lavoro, in cui gli individui non si esercitano alla violenza. «Nessun uomo leverà le armi contro un altro uomo»: era lì che Isaia avviava una riflessione tutta teologica ma assolutamente immersa nell’arena della Storia. Ed era lì, in quel punto, che due storie di vita apparentemente lontane come le nostre non potevano che essere unite. […]

Sono trascorsi vent’anni dalla sua morte: le manca? Per molti anni ho vissuto la sua morte come un abbandono. E questi ultimi sono stati quasi di disincanto, di gelo. Quante volte ho chiesto «don Tonino, dove sei?». Ogni vicenda la leggo sempre pensando cosa avrebbe detto lui: il suo punto di vista è sempre stato una bussola per me. Proprio in questi giorni di buio e smarrimento, torna ad accarezzarci i cuori e a farci tornare la voglia di sperare. Niente di più bello è la preghiera in cui dice: «dicono che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto, devono abbracciarsi per poter volare». Questo è don Tonino.


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info


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  1. * Mosaico di pace, aprile 2003 * Peacelink, 7 marzo 2005 * DTB Channel, 20 aprile 2010
  2. * a cura di Bepi Martellotta, Gazzetta del Mezzogiorno, 18 aprile 2013.