Il principio speranza di un uomo di frontiera

a padre Ernesto Balducci

Mi sembra una parabola anche l’epilogo della sua vita.

Padre Balducci non è morto nella sua stanza da letto dove, accanto al crocifisso, era appeso un planisfero. «Così — soleva dire — svegliandomi, prendo le misure dell’orizzonte del mio impegno». Lui, il teorico del’uomo planetario, invece che spegnersi sotto la simbologia di quel villaggio globale, nelle cui tende aveva collocato il domicilio, ha chiuso il suo cerchio terreno sulla strada. Una lezione di speranza all’aria aperta.

Aveva appena pubblicato l’ultimo suo libro, dal titolo emblematico: La terra del tramonto: saggio sulla transizione. Con questa morte, sembra che abbia voluto crearne anche la sceneggiatura. Un tramonto. La transizione da una città all’altra. Lo stato comatoso. Il simbolo, cioè, di un universo culturale giunto ormai al crepuscolo. Il raggiungimento della speranza. Quel «principio-speranza» che non smetteva di predicare e che ha costituito il filo rosso di tutta la sua esistenza umana e sacerdotale.

In fondo qual è il tema generatore che negli ultimi tempi assillava il suo articolato pensiero? Utilizzando una terminologia cara a Bloch, egli parlava di uomo edito e di uomo inedito. Il primo è quello che si è realizzato all’interno di una cultura e che ha prodotto una strumentazione di categorie, di apparati, di codici, di cifre interpretative. Il secondo, l’«homo absconditus», è quello delle infinite possibilità di realizzazione che ancora non si sono attuate. Noi dell’occidente siamo prigionieri di una immagine univoca di uomo, nella quale abbiamo preteso di inglobare monisticamente tutta la realtà. Ora, quest’immagine si sta lacerando. La nostra cultura, intesa come paradigma di unificazione dell’umanità, è in crisi irreversibile. E’ in stato comatoso. E’ al tramonto. Sulla mappa planetaria emergono nuove potenzialità. I «barbari» che si affacciano all’orizzonte ci offrono l’occasione per la scoperta della nostra umanità più profonda, del rizoma, da cui le nostre culture provengono come efflorescenze. Il senso del nuovo tempo è che l’occidente si disponga a ricevere i doni che gli vengono da lontano e cioè le forme di umanità che traducono l’inesauribile fecondità della specie e distendono dinanzi al futuro un repertorio di risposte infinitamente più ricco di quello in possesso della civiltà faustiana. Non basta la tolleranza, virtù illuministica: occorre un atteggiamento dinamico in grado di promuovere la nascita di ciò che attende di nascere. Amava ripetere con Levi-Strauss: «Bisogna ascoltare la crescita del grano, incoraggiare le potenzialità segrete, risvegliare tutte le vocazioni a vivere insieme che la storia tiene in serbo; bisogna anche essere pronti a considerare senza sorpresa, senza ripugnanza e senza rivolta quanto queste nuove forme sociali di espressione non potranno mancare di offrire di inusitato».

Padre Balducci se n’è andato così. Con quest’ultima lezione all’aria aperta. In cammino. Ha fatto così il suo transito. Il suo passaggio. Anzi, la sua Pasqua. Era la festa che lui prediligeva. Ed è suggestivo pensare che l’ultima omelia pubblica nella chiesa della Badìa Fiesolana, dove ogni domenica alle 11 accorreva tantissima gente ad ascoltare le parole di speranza che ricavava dal vangelo, l’abbia pronunciata nel giorno di Pasqua.

L’hanno chiamato «il teologo del dissenso». Anche i resoconti giornalistici di ieri parlavano di lui come di un «prete contro». Trovo infelici queste espressioni. Da che cosa egli dissentiva infatti, o contro che cosa faceva resistenza se non nei confronti di una Chiesa «edita», arrivata, troppo sicura della sua corazza culturale e troppo innamorata della cristallizzazione del suo patrimonio ideologico? E, in fondo, questo «essere contro» non significa lottare contro gli idoli? Padre Balducci amava la Chiesa. Perché dentro di lui vibrava la nostalgia della Chiesa «inedita», non ancora emersa in superficie, ruggente nelle viscere della storia. Il suo dissenso, perciò, anche quando si caricava di indignazione, era amore di ulteriorità, spasimo maieutico di possibilità inibite, desiderio di trascendenza, tensione dialettica tra strutturazioni di fatto e spinte rimaste escluse dal cerchio del possibile storico.

Con lui scompare uno dei più eccezionali uomini di frontiera degli ultimi anni. Ha scorto, con incredibile chiaroveggenza, le pietre terminali delle nostre secolari civiltà. Ci ha insegnato a non aver paura delle «cose nuove» con cui ci obbligano a fare i conti le turbe dei poveri, gli oppressi, i rifugiati, gli uomini di colore e tutti quelli che mettono a soqquadro le nostre antiche regole del gioco.

Maestro della parola, la sapeva piegare ai bisogni espressivi più ineffabili. Forse può essere additato come, l’inventore di un nuovo genere letterario, attraverso il quale i «lontani» trovavano la possibilità di un approccio seducente col messaggio cristiano. «Cercò di usare un linguaggio non sacrale, ma quello di tutti i giorni, in modo che uno senta parlare del vangelo con lo stesso linguaggio che sente in casa, all’università, alla tv, senza concessioni a quella schizofrenia specifica della coscienza religiosa che parla in un modo a scuola e in un altro in chiesa». Soleva ripetere: «Io non riduco il messaggio messianico, ma lo traduco. E anche se mi trovo in zona laica, non mi sposto di un capello dal mio asse evangelico».

Sapeva parlare. Ma sapeva anche tacere. Il criterio del suo silenzio, però, non era la prudenza, o peggio la paura. Ma era la sapienza. Parlava spesso di doppia fedeltà: a Dio e all’uomo, al regno di Dio e alla città terrena. Ma non di doppia morale. E neppure di doppia coscienza.

Perciò è stato sempre un uomo libero. Proprio perché fedele al magistero della povera gente. Ed è stato un maestro, amato oltre che ammirato. I suoi discepoli oggi sono tantissimi.

Forse è prematuro sognare le mietiture derivanti dalle seminagioni sparse a piene mani dalla sua coinvolgente parola. Ma non è prematuro affermare che, con la morte di quest’altro profeta, i suoi discepoli clandestini verranno alla luce. E si aprirà il cerchio. Il cerchio della speranza.

«Il Manifesto», 26 aprile 1992, p. 11.
«Giornale del Popolo», 28 aprile 1992, p. 3
* il Grembiule… 2007 | 09 | n. 20 | Settembre 2007


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info