La triplice lezione dei Martiri di Otranto

Gesù Cristo sia al centro della nostra vita.
Sia la nostra fede,

la nostra speranza,
la nostra carità.

1 Il brano del vangelo di Luca che abbiamo ascoltato (21, 9-19), disegna lo spazio di luce entro cui vanno collocate le gesta dei nostri ottocento Santi Martiri, dei quali in questo meriggio, con tanto tripudio di popolo, facciamo memoria nell’Eucaristia.

E i fari da cui si diparte questa luce sono due espressioni del vangelo. La prima si ripete due volte: «A causa del mio nome».

Gesù dice: vi metteranno le mani addosso, vi trascineranno (davanti ai tribunali, davanti alle sinagoghe; dovrete comparire davanti ai re, ai governatori, sarete interrogati, perseguitati a causa mia, «a causa del mio nome».

Poi continua: sarete traditi dai figli, dai genitori, dai parenti, dagli amici; sarete odiati a causa del mio nome. E questo è il primo faro da cui si diparte un fascio di luce che disegna il tracciato dello scenario entro cui vanno collocate le gesta degli ottocento martiri.

Il secondo faro è il seguente. Gesù dice: avrete così l’oppor­tunità di rendere testimonianza al mio nome. Riusciamo subi­to a capire che viene tracciato lo spazio cristologico su cui dob­biamo leggere le vicende degli 800 nostri santi concittadini; se non c’è questa luce, la loro vicenda per noi rimane oscura. La luce è Gesù Cristo.

Ricordo un episodio dei padri del deserto: c’era una volta un vecchio monaco il quale viveva solitario nel suo eremo. Aveva perduto un giorno una moneta; allora si dava da fare nel giar­dino a cercarla; girava sotto le foglie degli alberi, smuoveva i ciuffi d’erba, ma non riusciva a trovare la sua moneta. A un cer­to momento passa dalla strada un suo discepolo e dice: «Mae­stro, che stai facendo?», e lui lo chiama: «Vieni, ho perso la moneta, aiutami a cercarla». E anche lui si dava da fare, cer­cando sotto le foglie degli alberi, sotto i ciuffi d’erba, sotto le foglie delle siepi. «Ma Maestro, non riesco a trovare nulla, dove è che hai perso la tua moneta?».

E il monaco: «Lì dentro, nella capanna!».

«Allora perché la cerchi qui?» «Perché qui c’è più luce». Può sembrare una battuta, ma è bellissima: soltanto dove c’è la luce noi possiamo ritrovare le cose che abbiamo perduto, ma possiamo ritrovare anche la grandezza delle cose più grandi che noi vogliamo cercare; e noi stasera vogliamo cercare il signifi­cato profondo del martirio di questi nostri 800 concittadini, dei quali ci gloriamo e sotto la cui protezione ci siamo collocati da secoli. Noi non celebriamo l’exploit di 800 martiri di cui S. Francesco da Paola, qualche mese prima che i Turchi venisse­ro ad assalire Otranto, aveva previsto la fiumana: «Otranto, le tue strade saranno invase dal sangue dei cristiani». Dal sangue dei cristiani, ma soprattutto dal sangue di Cristo. Perché gli 800 martiri sono soltanto uno squarcio della diga attraverso cui il sangue di Gesù Cristo viene, fiotta abbondantissimo nella nostra città, è sempre Gesù Cristo che noi celebriamo, è lui al centro di questa assemblea.

Vengono in mente gli episodi che si raccontano di altri mar­tiri. Nella passione delle sante Perpetua e Felicita si racconta questo episodio. Perpetua era una ricca signora di 22 anni, e la sua serva si chiamava Felicita. Sotto la persecuzione di Settimio Severo nel 203, a Cartagine, vengono incarcerate la padro­na e la serva insieme con altri giovani perché cristiani. Ad un certo momento arriva l’ordine che il giorno seguente tutti que­sti prigionieri saranno decapitati, proprio perché non vogliono rinunciare al nome di cristiani. Tutti si rallegrano nel carcere tranne una: Felicita, giovanissima, 18 anni, la quale è incinta, e secondo la legge romana non possono essere mandate a mor­te le donne che aspettano un bambino.

Ecco allora che lei incomincia a implorare i carnefici perché le diano l’onore di andare con i suoi compagni al martirio, ma tutti la disprezzano e la mandano via in malo modo. Senonché, la notte precedente all’arena, viene colta dalle doglie del par­to, e nella cella urla sotto i dolori; dalle sbarre di ferro i carne­fici esultano di fronte a questa scena di dolore, e uno le dice: «Tu che vuoi andare a morire domani, non sei capace di sop­portare i travagli del parto, i dolori di questo momento: come vuoi sopportare i dolori della spada e delle fiere?». E Felicita risponde: «Io adesso sto partorendo e questi dolori sono miei, sono io che soffro; ma domani sarà Gesù Cristo che soffrirà in me». Andò al martirio insieme con tutti gli altri.

Vedete, ho voluto indugiare sull’episodio proprio per far vedere questo fascio di luce cristologica; è Gesù Cristo che è al centro della nostra assemblea, della nostra celebrazione; è Lui che vogliamo adorare perché Lui ha dato la forza del martirio ai nostri 800 Beati,2 i quali si sono resi grandi per una storia che tutti quanti voi conoscete e che non è il caso di stare a ripercorrere, se non brevemente, proprio a beneficio di tanti amici forestieri che sono venuti da lontano e che partecipano a que­sta liturgia, perché possano immergersi anche loro in questo evento di grazia, in questo flusso di fede, di speranza, di carità che parte da quella vicenda.

* * *

Era il 28 di luglio del 1480, 512 anni fa. Quella mattina, quando si svegliarono, gli idruntini videro il loro mare tempe­stato di navi, un arco fosco copriva l’orizzonte, 150 legni turchi erano sfilati sul mare di Otranto e allora capirono di che cosa si trattava. I Turchi avevano lasciato la base di Valona… (la sto­ria come si ripete, adesso da Otranto si va a Valona tantissime volte nel corso del mese, per portare altri soccorsi… I viaggi co­me cambiano! Dall’America le caravelle ritornano da noi, e qui per questo canale d’Otranto il percorso si inverte). Ebbene, vennero qui i Turchi perché Maometto II voleva occupare un po’ tutta l’Italia meridionale, pensava che Otranto sarebbe sta­ta la prima roccaforte da espugnare, dopo di che le cose sareb­bero andate bene per lui e il suo esercito; quindi mandò agli ordini di Ahmet Pascià 18.000 uomini i quali sbarcarono a Otranto, sicché la città venne circondata dalla parte del mare e anche dalla parte di terra. Chiesero subito la resa ai cittadini otrantini i quali con fierezza rifiutarono assolutamente di cede­re le armi e di arrendersi; anzi uno di loro, uno dei maggioren­ti, fece cadere nel mare addirittura le chiavi delle due porte del­la città, per dire che sarebbero morti piuttosto che cedere di fronte al nemico.

È un fatto di fierezza civica. Forse a questo punto Gesù Cri­sto non c’entra ancora, però già vediamo le radici di una fede che comincia ad esplodere. I Turchi cingono d’assedio la città, e per 15 giorni c’è questa continua lotta, la città resiste, è ridot­ta allo stremo; ma l’11 di agosto nelle mura della città viene aperta una breccia ancora più grande, sicché è una fiumana di invasori che imperversa mettendo a ferro e a fuoco, uccidendo tutte le persone che si trovano sul loro passaggio e quest’orda di barbari arriva fino alla porta della cattedrale dove le perso­ne si erano asserragliate insieme con il loro vescovo mentre un sacerdote parlava dal pergamo.

La porta venne abbattuta, schiacciò tanti corpi cadendo e poi venne ammazzato il padre che predicava sul pergamo. I Tur­chi, armati, si diressero verso l’arcivescovo della città, l’ul­traottantenne Stefano Pendinelli, che venne ucciso così nel nome di Gesù Cristo. Fu una carneficina all’interno della cat­tedrale.

Quell’11 di agosto, dopo 15 giorni di assedio, viene ricorda­to come una data per un verso infausta ma per un verso anche gloriosa per la città di Otranto. Poi, le cose si placarono per qualche giorno, ma Ah[k]met Pascià, dopo aver conseguito que­sta vittoria sul piano militare e sul piano civile, volle prender­si anche una rivalsa sul piano religioso. Fece convocare tutti gli uomini che rimanevano dai 15 anni in su, se li fece portare davanti e, attraverso un interprete, fece spiegar loro che avreb­bero avuto salva la vita, e sarebbero stati restituiti anche nei loro diritti, se avessero rinnegato Gesù Cristo e aderito alla reli­gione di Maometto. Ed ecco che emerge la figura del protago­nista, Antonio Primaldo, il quale esorta i suoi compagni: non è il momento adesso di cedere, la nostra fede è la cosa più pre­ziosa che abbiamo, Gesù Cristo rimane la A e la Z del nostro alfabeto e non vogliamo rinunciare a lui.

Vengono perciò portati, incatenati a gruppi, fino al colle del­la Minerva, dove Ah[k]met Pascià vuole ascoltarli per l’ultima volta, e poiché quest’operaio, Antonio Primaldo, prende anco­ra la voce e interpreta i sentimenti di tutti, allora viene dato l’ordine che vengano ammazzati, a partire proprio da lui.

Si racconta che una volta che il capo di Antonio Primaldo rotolò per terra, il suo busto si eresse in piedi e fu impossibile trascinarlo nella polvere; rimase in piedi fino a che tutti quan­ti, uno dopo l’altro, vennero ammazzati. Rimasero poi lì espo­sti alle intemperie per lunghissimi mesi, incorrotti; soltanto dopo un anno e oltre vennero raccolti pietosamente, e dopo alterne vicende le loro ossa furono ospitate qui all’interno di questa cattedrale. Ecco, questa è la storia, questa è la vicenda, per un verso allucinante, per un verso straordinaria, per un ver­so esaltante; qui davvero abbiamo non più una testimonianza civile di fierezza cittadina ma di fierezza cristiana. Davvero, dicono gli idruntini martirizzati, noi non rinunciamo a Cristo, noi siamo felici di morire per Gesù Cristo.

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Che cosa vuol dire questo per noi, oggi, dopo 512 anni, in questo 1992, in questa nostra terra meridionale, salentina, con tanti problemi. Questi santi martiri danno a tutti noi, oggi, una grande lezione di fede, una grande lezione di speranza, una grande lezione di carità.

Una grande lezione di fede, perché ci mandano a dire che bisogna mettere Gesù Cristo veramente al centro della nostra vita. Carissimi fratelli, carissimi amici tutti, se ci facessimo un esame di coscienza in questo momento, e ci chiedessimo quan­ti idoli ci sono all’interno della nostra vita… un pantheon è diventato il nostro cuore, quanta idolatria! Oggi l’alternativa non sta tra Maometto e Gesù Cristo, ma sta tra Gesù Cristo e tutti gli idoli, primo tra tutti, non nascondiamocelo, il denaro.

Il denaro, l’accaparramento, l’accentramento, l’avarizia, il dollaro, il superdollaro, il petrodollaro, il business, gli affari, la massimizzazione del profitto, l’accumulo, per cui facciamo cose pazze. Da qui nasce tutta quella congerie di situazioni delle qua­li oggi siamo spettatori.

Di qui la droga, di qui la violenza, di qui la microdelinquen­za minorile, di qui gli scippi, di qui i furti, di qui ormai l’impossibilità di vivere. Ma non voglio portarla su questo tono perché farei soltanto del moralismo, e qui non si tratta di fare del moralismo, ma si tratta di fare della teologia.

Voglio mettervi in guardia perché Gesù Cristo lo abbiamo detronizzato dal nostro cuore, e vi abbiamo messo degli idoli, non Maometto, ma il denaro. I Santi Martiri di Otranto ci dan­no questa grande lezione: Gesù Cristo dobbiamo riportarlo al centro della nostra vita, anche per noi Gesù deve diventare il principio e la fine e il centro di tutte le cose, il centro di gra­vità permanente verso cui precipita tutta la nostra esistenza, tutti i nostri desideri, tutte le nostre passioni, tutti i nostri fre­miti. Gesù Cristo il principio e la fine, la A e la Z, il punto di riferimento, la chiave di volta, la cifra interpretativa di tutto il creato. Così come diceva un grande teologo, Karl Bart, il qua­le affermava che Gesù Cristo è l’unica realtà esistente; tutto il resto non è altro che il mantello addosso a Gesù Cristo, tutto il resto, cioè l’universo, le cose, gli uomini, le persone, non è altro che la frangia di questo mantello. Allora, c’è veramente Gesù Cristo al centro della nostra vita personale, e al centro della nostra vita civica, cittadina?

Vedete, la festa di oggi è una festa ecclesiale, ma è anche una festa di comunità. È straordinario pensare non tanto all’exploit di una persona, di Antonio Primaldo, ma all’exploit di una popolazione. È tutta una popolazione che si esprime in gruppo: uno parla per tutti, uno interpreta il gruppo. Oggi è molto difficile poter interpretare i bisogni di tutti coloro che ti stanno dietro perché cento teste e cento interpretazioni del pensiero…

Ma prima non era così, si aveva questa fierezza, questa co­scienza di popolo, e come vorremmo dai Santi Martiri di Otranto che dessero pure a noi questa coscienza fierissima, non soltanto a voi di Otranto, ma a tutto il popolo del Salento, geo­graficamente emarginato e anche storicamente.

* * *

Dovremmo come diceva Giorgio La Pira, «costruire la città nuova attorno alla fontana antica»: la fontana antica è Gesù Cristo, la città nuova è la città che tutti quanti, oggi, siamo chiamati a costruire attorno alla fontana antica, che è Lui; la fontana che scroscia da sempre, accanto alla quale la gente va, questo dovrebbe essere la Chiesa. Accanto alla fontana antica, la gente può andare per vari motivi. Ricordate le belle fontane che c’erano nei nostri paesi? Adesso non ci sono più questi scrosci di acqua, che cadenzavano le ore della notte, del giorno e dei meriggi d’estate. Alla fontana si andava per lavarsi le mani, per prendersi un sorso d’acqua, per riempire i recipienti da portare a casa; alla fontana si va, se si è ragazzi, per schizzare i compagni; di sera o nelle notti d’estate si va anche per udire il chioccolìo, come facevano i contadini. La Chiesa è questo, la fontana antica. Non necessariamente tutti vanno in chiesa per udire il canto gregoriano o per prostrarsi in adorazione davanti al Signore, possono essere indotti da vari bisogni, ma attraverso questi bisogni poi filtra Gesù Cristo che è l’acqua viva discesa dal cielo. Costruire la città nuova attorno alla fontana antica: questo ci dicono i martiri di Otranto, questa sera; mettere Gesù Cristo con un grande atto di fede corale, collettivo, personale, al centro della nostra vita.

Ma i Santi Martiri di Otranto ci danno anche una grande lezione di speranza, di fiducia nella riacquisizione di tutti quei valori che stiamo perdendo: la tenerezza, la bontà, il cuore di carne al posto del cuore di pietra, la solidarietà con la gente, l’amicizia con le persone, l’accoglienza di coloro che non la pensano come noi, che sono dislocati su altre posizioni ideologiche, religiose, spirituali, culturali.

Vedete, oggi pure noi, popolo laboriosissimo dell’estremo Sud d’Italia, siamo afflitti da tanti problemi. Quante volte i mezzi di comunicazione sociale mettono in risalto il degrado avvilente a cui minacciano di giungere anche le nostre popolazioni salentine; però nonostante tutto quello che può avvenire, non bisogna perdere la speranza, non bisogna perdere la fiducia, andiamo verso tempi migliori, lo sapete; chissà quanti messaggeri giungono da lontano per darvi proprio questa bella notizia: che andiamo verso tempi migliori. Le barbarie hanno le ore contate, la legge della giungla è ormai al suo crepuscolo, e la cattiveria, la violenza, stanno dando gli ultimi rantoli. E così è. Chi percorre da un capo all’altro l’Italia si accorge di questo fremito sotterraneo di speranza, di luce, di voglia di cambiare che c’è all’interno delle nostre comunità. Io vedo che questo fremito c’è anche qui nella nostra terra, e allora dobbiamo chiedere aiuto ai santi martiri di Otranto, che non sono morti disperati, non sono morti sotto l’insegna «tanto non c’è nulla da fare, tanto vale»; no! Sono morti volentieri. C’è proprio questa espressione nelle parole di Antonio Primaldo. «Noi diamo la nostra vita volentieri per Gesù Cristo», cioè con libertà, con fiducia, nella certezza che verranno tempi migliori.

Ecco perché anche se oggi noi siamo avvolti da questa atmosfera turbolenta, non dobbiamo perdere il coraggio, anche se è notte. Un poeta francese, Rostand, diceva; «C’est la nuit qu’il est beau attendre la lumiere», «è di notte che è bello aspettare la luce»; «il faut forcer l’aurore à naître en y croyant», diceva, «bisogna forzare l’aurora a nascere credendo in essa», bisogna spingerla perché nasca.

Infine i Santi Martiri di Otranto ci danno una grande lezione di carità, di amore, di passione per l’uomo. Comprendete, carissimi fratelli miei, che avete le pupille intrise di questi scenari terribili che la televisione ci mette sott’occhio e le riviste e i reportage, non solo televisivi, ci fanno vedere: quello che sta accadendo nella Bosnia, a Sarajevo. Oggi le cose si sono invertite: lo sapete che questi lager stanno ripetendo le igno­minie del razzismo di tanti anni fa? In questi campi di concen­tramento, oggi la maggioranza dei prigionieri sono i musulma­ni e sono angariati, perseguitati, torturati, condannati a crude­lissime mattanze da parte di cristiani ortodossi.

Basterebbe leggere un giornale di oggi, una rivista uscita negli ultimi giorni, e vi rendete conto che state leggendo il calco di quello che è avvenuto a Otranto 512 anni fa: la gente che viene sventrata, le donne stuprate, i ragazzi maciullati, le per­sone veramente ridotte a un livello di subumanità incredibile. Stanno accadendo, oggi, queste cose, a passi da noi, a due ore di motoscafo da Otranto, e noi rimaniamo taciturni, ovattati nel nostro perbenismo. Ci accontentiamo sì, di celebrare le ge­sta dei martiri del passato, però per quanto riguarda i martiri di oggi, gli uomini che soffrono anche oggi, non andiamo al di là di qualche fremito di commozione. Sono avvenute sempre que­ste mattanze. Noi, oggi, anche come credenti, dobbiamo chie­dere perdono al Signore, dobbiamo adoperarlo questo atteggia­mento penitenziale.

Vedete, anche 500 anni fa, quando gli europei sono andati in America, l’hanno scoperta e conquistata: è stato un avveni­mento grandissimo di luce, di speranza, di gioia, perché Gesù Cristo è stato annunciato a quelle genti; però alla croce si è accompagnata la spada. Quanta gente è morta uccisa dai cristiani! Se voi leggete, allora, i reportages di Bartolomè De Las Casas, un vescovo domenicano che si trovava lì, vedete con raccapriccio quello che si combinava allora da parte degli eser­citi spagnoli: tutti coloro che non volevano accogliere il batte­simo li trucidavano senza pietà. Il 12 ottobre prossimo sarà una grande festa per la cristianità: senza dubbio, dobbiamo intona­re il Magnificat; però, accanto ai versetti del Magnificat, dob­biamo cantare anche qualche versetto del Miserere, e insieme all’Alleluia dobbiamo intercalare il Kyrie eleison: Signore, abbi pietà.

* * *

Ecco, dobbiamo chiedere al Signore la grazia di essere uma­ni, la grazia della tenerezza, il dono del pianto, la gioia delle cose povere, buone, pulite; dobbiamo chiedere al Signore il gaudio della povertà. Dovremmo, noi Chiesa, essere più severi nel fare scrutinio per ciò che riguarda la ricchezza, perché non è pensabile che la nostra cristianità viva nel lusso, nello sper­pero, e c’è tanta gente che muore di fame, ci sono dei popoli che sono diseredati.

Noi oggi ci ricordiamo soltanto dei popoli della Bosnia; però quelli di Timor, quelli di Haiti, quelli del Salvador, quelli della Somalia, dell’Eritrea: quanta gente soffre!

E, noi nel nostro cristianesimo, ci balocchiamo un po’ con liturgie sontuose, ma dovremmo metterci anche in crisi per comprendere che essi ci danno una grande lezione d’amore.

Chiediamoli questi doni al Signore, chiediamo che venga­no tempi migliori per la nostra terra e per la nostra città, che un futuro migliore giunga così ad allietare le nostre attese, le nostre speranze. Non abbiate paura, carissimi fratelli: Martin Luter King diceva «se la paura bussa alla porta di casa tua, non temere! Manda la tua fede ad aprire, ti accorgerai che fuori non c’era nessuno». Chissà quanta gente ha paura non soltanto del domani, ma anche dell’oggi: paura della malattia, paura della miseria, paura del lavoro che non si trova, paura per i figli, paura dei pericoli. Quante paure! «Pavere» in latino significa «stare stesi per terra». Non abbiate paura! Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la tua fede, la tua speranza, la tua carità, ti accorgerai che fuori non c’era nessuno. Allora coraggio carissimi fratelli!

Un grazie per questo dono della celebrazione nella quale io mi sento coinvolto; grazie a questa comunità cristiana, a questa splendida Chiesa; grazie all’Arcivescovo, grazie a tutti gli altri celebranti presenti, grazie a monsignor Riezzo e grazie all’Arcivescovo Nunzio Apostolico in Italia che onora questa liturgia. Vorrei tanto che tutti quanti noi, uscendo da questo tempio, ci portassimo tanta speranza nel cuore, con la certezza che nonostante i tempi bui che stiamo attraversando, l’amore, la speranza, la fiducia stanno già comparendo all’orizzonte.

Vi ricordate quel versetto della Bibbia di Isaia: un cittadino passa sotto le mura della città, vede la sentinella che sta camminando sugli spalti e dice: «Custos (in latino è bellissimo!) custos quid de nocte?» «Sentinella, quanto resta della notte?» Viene ripetuto due volte: «Sentinella quanto resta della notte?». La sentinella scruta l’orizzonte, poi si volta al passante e dice: «Resta poco della notte, perché ormai l’orizzonte si incendia di luce».

Tanti auguri, carissimi fratelli, perché a tutti coloro che vi chiedono quanto resta della notte, soprattutto ai vostri figli, alle generazioni nuove che chiedono: «Custode, sentinella, quanto resta della notte?», tutti quanti possiate rispondere: «Resta poco della notte, perché l’orizzonte già si inebria di luce!».

Antologia degli Scritti, Parte 0 – La terra dei miei sogni, pgg. 533-544


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info


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“Otranto 1480” di Adriano Barbaro, Film, edizione restaurata.


  1. Omelia pronunciata in occasione della concelebrazione eucaristica nella solennità dei Beati Martiri Idruntini. Otranto, Cattedrale Santa Maria Annunziata, 14 agosto 1992. In L’Eco ldruntina, rivista diocesana, 1992, 478-484.
  2. «Causa di Postulazione: Il 27 maggio 1994 viene emanato il Decreto della Congregazione delle Cause dei Santi con cui si riconosce la validità dell’Inchiesta Diocesana sulla storicità del martirio, tenuta dal 16 febbraio 1991 al 21 marzo 1993. / Il 6 luglio 2007 Papa Benedetto XVI dispone che la Congregazione delle Cause dei Santi pubblichi il Decreto sul martirio. / Il 27 maggio 2011 la Congregazione delle Cause dei Santi con Decreto riconosce la validità dell’Inchiesta diocesana su una guarigione ritenuta miracolosa riguardante Suor Francesca Levote, delle Sorelle Povere di Santa Chiara del Monastero di Otranto, da una grave forma di cancro. / Il 20 dicembre 2012 Papa Benedetto XVI autorizza la pubblicazione del Decreto sul Miracolo. In esso si riconosce la guarigione prodigiosa “rapida, completa e duratura” della Religiosa Clarissa Francesca Levote operata dal Signore per intercessione dei Beati Martiri Antonio Primaldo e Compagni, da “cancro endometrioide dell’ovaio con progressione metastatica (IV stadio) e grave complicazione dello stato generale”. / L’11 febbraio 2013, nel corso del Concistoro Ordinario Pubblico il Santo Padre Benedetto XVI decreta che siano iscritti nell’Albo dei Santi. / Sono stati canonizzati da Papa Francesco in piazza San Pietro a Roma il 12 maggio 2013. / La Chiesa universale li ricorda il 14 agosto, mentre nella Diocesi di Napoli si festeggiano il 13 agosto.» * Daniele Bolognini.