Benedetti sogni! (Virginia Peluso)

di Virginia Peluso 1

Non sono mai riuscita a trovare una risposta che mi potesse soddisfare.

L’ho cercata fin da bambina, da quando la sera tenevo sveglia mia madre che mi leggeva la Bibbia e non capiva perché non dormissi.

E questa domanda l’ho tirata fuori come in un gioco di prestigio. Lasciando le persone a bocca aperta, pronte a ricevere un pesce.

Perché la terra ci sarà, invece il mare…?

Nell’Apocalisse di San Giovanni il mare scompare. Così di botto, senza strascichi, senza colore. Non ci sarà niente che ce lo ricorderà, perché non ci sarà più.

E noi lo amavamo il mare, con un amore struggente, ma con paura quando si gonfiava d’orgoglio e ci riportava il suo profumo di pesce e di salsedine.

Il mare è saporito, dicevamo sempre.

Che risate di fronte alla tua fotografia, che vidi anni dopo, con te in calzoncini sintetici, neri e le pinne dello stesso colore. Ma il riso era un bacio che davo al tuo cuore di uomo vero, di santo e i ricordi che riaffiorano sempre, quando m’inginocchio sulla tua tomba e bacio la pietra umida e mi bagno le labbra e le ginocchia, mi riportano al mare, alla mia domanda iniziale.

Ci vado in quell’angolo di cimitero, perché ritrovo la stessa brezza mattutina che un tempo ci teneva svegli e ci faceva pregare. E anche perché oggi ti posso baciare senza che ti faccia male.

Quando arrivasti nel mio paese avevo già preso la Prima Comunione e per tutti ero ancora una bambina. Ma dentro, nel profondo della mia anima, i moti dello spirito si alzavano forti e violenti. Così venivo a trovarti e mi sedevo negli ultimi banchi e non dicevo nulla. Stavo lì, tra la Crocifissione e il Corpo deposto dal mio Amato, senza dire parola. Soffrivo molto e tanto.

Guardavo la tua schiena china su un libro e la vedevo secca come l’albero maestro della mia barca.

Mi consolavo così nell’aridità più nera…. Guardare la tua schiena mi dava pace.

Poi, un giorno entrai nella Chiesa Madre dal portone centrale e mi mancò il respiro di fronte all’immensità dello spazio e della luce. Non entrai da sola, ma con le mie amiche delle Medie. Furono la loro spensieratezza e la tua presenza a darmi coraggio.

Avanzammo verso l’altare e ci sedemmo sotto il quadro di santa Margherita. Quello in cui Gesù le appare e le mostra il Suo cuore. Quello in cui lei è vestita da suora e Gesù ha la tunica aperta sul petto, come un innamorato perso.

Gesù, ti prego, non mostrarti mai così a me, altrimenti muoio sul serio!

E mentre camminavamo tra i banchi, il timore di Dio mi prendeva e sentivo l’esigenza di inginocchiarmi per non stendermi a terra, tu eri sempre lì, al solito posto, nei primi banchi della navata di sinistra.

Le mie amiche ti circondarono contente e ti chiesero una confessione. Io rimasi indietro senza dire niente. Guardavo il Cuore di Gesù e sentivo il mio battere nel petto. Vedevo il rosso del suo Sangue e conoscevo la sua passione verso di me, verso di noi. Quella Passione che lo aveva spinto a dare la vita e che mi faceva uscire da me stessa e mi faceva piangere per ore, perché nessun altro mi avrebbe amata così sulla terra!

Ma a chi dire quest’arsura di sale che provavo nella bocca e nel mio ventre? A chi raccontare le pene di chi getta le reti e le raccoglie strappate e vuote? A chi far sentire la mia voglia d’amore?A nessuno. Solo a Te, Gesù!

Il colloquio cresceva naturale e le mie amiche, a turno, si sedevano accanto a te. Io ero sempre nel banco, immobile, incapace di muovermi e di pregare.

E tu, cosa aspetti! E’ il tuo turno! Mi sgridarono le amiche. Mi alzai come se un macigno tremendo mi schiacciasse il corpo.

Cosa ti avrei detto? Non volevo fare una brutta figura davanti a te e alle mie compagne. Camminai con quella goffaggine di chi non è sicuro di niente, di chi vorrebbe scomparire, perché si sente acqua che scivola via tra gli scogli. Timidamente venni da te, ma mi raggiunsero prima il tuo sorriso e il tuo sguardo silenzioso.

Mi sedetti e senza fretta tu dicesti: Il Signore è nella tua anima e nel tuo cuore… E, all’improvviso, mi sembrò di essere su una barca che tagliava le onde e le frantumava e navigava sicura nella chiesa e nella vita. Il Signore era in me, come nella stiva di una nave. Presi il largo.

Non riesco a pregare, ti dissi in un soffio. Dopo un Padre nostro e un’Ave Maria, guardo nel vuoto senza parole… Se non prego sto male!

Avresti potuto ridere di me, che tutti consideravano una bambina troppo sensibile e malaticcia, e sottovalutare la mia sofferenza. Invece, divenisti serio e con un gesto delicato prendesti il libro. Quel libro che leggevi piegato sul banco. Quel libro che tenevi sempre aperto, e mi dicesti: Leggi qui. E io lessi e le parole, nella mia bocca, trasformarono il sale e la lingua secca in latte e miele.

Arrivò un vento leggero a scompigliarmi i capelli, che mi avvolse tutta e mi fece sentire una donna piena. Alla fine dei versi ero inzuppata fino alle midolla.

Ecco così hai pregato! E mi prendesti le mani e me le stringesti forte forte, proprio come si fa con una fune e mi legasti a te per sempre.

Così quando volevi dirmi qualcosa, ristringevi la fune. Mi prendevi la mano destra e recitavi con me il Padre nostro. Non soli io e te, ma sempre insieme agli altri, a quelli del Gruppo missionario.

Io che dovevo prepararmi psicologicamente quando dovevo arrivare a Lecce, sognavo di andare in Africa, di vivere nelle capanne.

In effetti, col mio amico Stani avevamo costruito una capanna, al Quadrano, dove passavamo l’estate. Una capanna vera, col telaio di rami e le foglie delle palme che ci coprivano il capo. Ci andavamo quando faceva buio, con la lampadina tascabile e portavamo i nostri fratelli più piccoli. Nell’oscurità ci raccontavamo storie paurose, di cavalieri senza testa e di mostri. Puntualmente nel mezzo del racconto, scappavamo gridando a squarciagola come gabbiani stizziti.

Così coltivavo il sogno di una capanna. Di poter andare in un villaggio e viverci sul serio. Speravo di andarci in Africa, ma con te. Sapevo che quando mi stavi vicino non avevo da temere, perché mi spiegavi le cose che accadevano dentro la mia anima e mettevi a tacere il mio mare, con la padronanza di chi sa amare senza sforzi e senza misure.

Una sera mi chiamasti, con tutto il gruppo. Non ero ancora pronta per il viaggio, ma arrivai subito alla canonica.

Altro che Africa! Altro che viaggi! I poveri stanno qui, dicesti. C’è una famiglia che hanno sfrattato e che è rimasta senza casa. Andate per il paese, chiedete in giro se c’è una piccola casa da poter prendere in affitto. E noi: Ma…siamo un Gruppo Missionario… cosa c’entriamo con le case?

Partimmo per le strade del paese e non pensai più a costruire capanne. Le palme tagliate le adoperai nella domenica in cui Gesù entra a Gerusalemme, nel corteo che si concludeva nella piazza dove il sabato sera andavamo a passeggiare. Lì durante la Messa salii sulle spalle di un mio amico del Gruppo missionario e veramente superai l’Africa e il mare che ci divideva.

La stessa ebbrezza la provai dopo, quando ci recammo a Bari al raduno nazionale dei Gruppi missionari. Zaino e colazione a sacco e tanto entusiasmo. Ascoltammo le testimonianze dei padri Comboniani e della Consolata e al ritorno mi misi dietro alla bancarella che vendeva cose in beneficenza per i bambini africani. Superai così la mia timidezza e la paura di essere criticata.

Dopo te n’andasti e non venni più a trovarti. Lessi i tuoi libri, però, e ti mandai sempre i saluti.

Non dimenticasti il mio nome che gridavi da lontano, appena mi scorgevi. Sapevi come ero povera e bisognosa, che dovevo continuare ad amarti e a scrivere ballate dove il nemico diventa amico, che dovevi stringermi le mani come una fune, perché non venissi ingoiata dalle onde.

Oggi il mare per te non c’è più.T u stai in un posto dove il mare è scomparso. Ma nelle giornate tempestose, quando il mare si alza e porta sulla spiaggia tutto il marciume e l’immondizia umana, scendo alla marina.

Porto con me la mia domanda di sempre e aspetto ancora. Allora risento le tue parole, i tuoi discorsi, le tue omelie e il tuo ultimo saluto, quando nella chiesa dei Cappuccini di Alessano mi baciasti sulle guance. Eri seduto su una sedia, scarnito dalla malattia, ma con gli occhi di sempre.

Ci guardammo a lungo e senza lacrime. E sentivo che cercavi un augurio felice.

Lo trovasti e benedicesti i miei sogni.

…io neppure sapevo che i sogni si potessero benedire.

Trascrizione  online | A cura della  Redazione  dontoninobello.info

  1. Virginia Peluso è nata a Tricase dove vive. Negli ultimi anni, oltre a continuare a produrre narrativa, ha realizzato video e documentari anche con Edoardo Winspeare. Per Sky Cinema ha scritto insieme a Winspeare il cortometraggio Il cammino, dove è stata anche aiutoregia (2004), che ha partecipato al Festival di Berlino. Per Winspeare ha curato il dvd di Pizzicata, primo cortometraggio del regista salentino, inserendo il suo racconto I sognatori (2006). Ha scritto i testi della mostra La cena di Emmaus, di J. Corvaglia, e collaborato all’intero progetto multimediale che consiste in una mostra, un libro e un film (2008).  * AA.VV., Almanacco 2010, Ed. Panico