Tonino Bello. Il buon samaritano (Claudio Ragaini)

1 Si torna con emozione e quasi in punta di piedi sul molo di Molfetta, cinque anni dopo, come a cercare le tracce di un passato cancellato dalla vita che continua. Sul grande spiazzo davanti al porto, tra le automobili in sosta, il traffico dei pescherecci in arrivo e la presenza immobile del vecchio duomo di pietra bianca che da otto secoli sta a guardia della città vecchia, si sciolgono i ricordi e prendono corpo le immagini non ancora appannate dal tempo. Era l’inizio di una primavera come questa, il 22 aprile 1993, il giorno dell’addio a don Tonino Bello, vescovo di questa città e delle altre località affiliate alla sua diocesi: Giovinazzo, Terlizzi, Ruvo. Una platea immensa di gente in lacrime, gonfaloni, cartelli, gruppi arrivati da tutta Italia, centinaia di sacerdoti a concelebrare una messa funebre che era un’apoteosi, non un requiem, con le rondini che guizzavano nel cielo e la brezza del mare che sfogliava il Vangelo deposto sulla bara.  [*in aggiornamento*] 

La primavera di don Tonino – che sempre don era voluto restare, respingendo i titoli onorifici che il suo ruolo gli conferiva, così come gli orpelli del potere – si era consumata poco distante, nella stanza dell’episcopio dove aveva trascorso i suoi ultimi giorni, in una lotta eroica e luminosa contro il male. Teneva appesa di fronte al letto un’icona della Madonna, a lui molto cara, alla quale aveva affidato in quella quaresima di sofferenza le sue pene e le sue invocazioni.

Lì, tra il suo popolo aveva voluto morire, chiedendo di essere sepolto ad Alessano, il paese natale in provincia di Lecce, quasi sulla punta di Leuca. L’ultimo suo saluto, sussurrato a fatica durante la messa crismale del Giovedì santo in cattedrale, pochi giorni prima della fine, era stato un messaggio d’amore per ciascuno dei presenti: «Ti voglio bene». Aveva anche ripetuto, in quell’omelia, quasi a suggellare il senso del suo ministero: «Amate i poveri. Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà. Non arricchitevi».

La sua tomba ad Alessano [*in aggiornamento*], un piccolo anfiteatro chiuso da una quinta di cipressi e tamerici, è oggi meta continua di un pellegrinaggio anonimo e devoto: giovani che lo hanno conosciuto attraverso i suoi scritti e si raccolgono a leggere i brani dei suoi libri; gruppi di parrocchie lontane che vengono a pregare e a deporre un fiore. Accanto alla tomba è stato piantato un ulivo, simbolo della pace a lui così cara, ai cui rami pendono nastri e fazzolettoni scoloriti, lasciati come pegno di affetto da associazioni e confraternite in visita.

Il duomo di Molfetta, affacciato sul porto.

A cinque anni dalla sua scomparsa, queste testimonianze spontanee di devozione e la sua memoria così viva, lievitante, ramificata in tutta Italia come un fiume sotterraneo, costituiscono l’eredità più significativa di un uomo di Chiesa che ha saputo toccare il cuore della gente, parlare al popolo di Dio, amare e farsi amare da tutti, anche da chi non sempre comprendeva i suoi slanci generosi e provocatori.

Nella terra salentina era nato nel 1935 e veniva da una famiglia di modeste condizioni economiche, che conosceva la fatica della vita. Il padre gli era morto quando aveva sette anni; la madre, una pia donna, era rimasta sola a mandare avanti la famiglia di tre figli, due più piccoli di Tonino, che era stato messo in seminario quando aveva dieci anni. Forse c’era in germe, come un dono, nella sua origine mediterranea e negli anni stentati dell’infanzia, l’attenzione ai bisogni dei più poveri, il senso della condivisione e del servizio che caratterizzarono l’intera sua vita e si consolidarono durante il suo cammino sacerdotale, fino a diventare l’essenza stessa del suo ministero, ispirato alla gioia dell’annuncio evangelico e del Regno di Dio.

A  Ugento, dove fu studente e insegnante di seminario, a Tricase [*in aggiornamento*] dove per tre anni resse la parrocchia vivificandone la vita comunitaria, poi a Molfetta dove divenne vescovo nel 1982, e ancora come presidente nazionale di Pax Christi: le tappe fondamentali della sua vita sono segnate da questo costante riferimento all’ “altro”: fosse il povero mendicante, o l’immigrato di colore, lo sfrattato o semplicemente chi è rimasto solo ed è in attesa di un gesto di solidarietà. Uomo di pietà, in senso evangelico, concreto, che amava l’azione prima ancora della teoria e parlava con le opere e la dolcezza dei gesti. A Ugento portò in seminario un’intera famiglia senza casa, chiedendo il permesso al vescovo a cose fatte.

La Casa, la comunità d’accoglienza per tossicodipendenti, a Ruvo di Puglia, voluta da don Tonino. [*in aggiornamento*]

A Molfetta, con grande scandalo, il vescovado divenne la casa di chi non aveva un tetto per dormire; i barboni e gli immigrati li portava al ristorante, il suo contatto privilegiato non era con gli uomini del potere, ma con gli umili, quelli che non contano nulla: Gennaro l’ubriaco, Mohammed il marocchino [*in aggiornamento*], Giuseppe il disoccupato [*in aggiornamento*]. Sulla sua insegna di vescovo aveva messo le parole del salmo 34: “Ascoltino gli ultimi e si rallegrino”. Aveva concentrato in una espressione efficace e provocatoria: “La Chiesa del grembiule”, il senso del servizio, quale lo intendeva per una comunità veramente cristiana. Aveva espresso in un’altra stupenda sintesi “La convivialità delle differenze” [*in aggiornamento*], il valore della comunione e della fraternità, premessa per una cultura di pace. La gente era rapita da questo linguaggio e lo amava.

Tra le parabole [*in aggiornamento*] del Vangelo don Tonino aveva cara soprattutto quella del buon samaritano. Era la sua icona. Vi faceva spesso riferimento e la elaborava, con la fantasia che gli era propria, per adattarla alle esigenze del momento e dei suoi interlocutori. Così era stato quando si era presentato la prima volta all’assemblea di Pax Christi, così aveva fatto quando, già vescovo, si era rivolto agli operatori della politica, alla vigilia del Natale del 1986, per uno di quegli incontri periodici che aveva preso a tenere regolarmente, ma che sfumarono per l’indifferenza dei destinatari.

La tipologia del samaritano di fronte al viandante malconcio, spiegava, può essere di tre tipi. C’è il samaritano dell’ora giusta, quello «del pronto soccorso, dell’assistenza immediata, delle cure ambulatoriali». È quello che nel racconto evangelico di Luca è espresso con due atteggiamenti: «N’ebbe compassione e gli si fece vicino». Poi c’è il samaritano che don Tonino chiama “dell’ora dopo”: quello che si prende cura del poveretto, lo porta in una locanda, lo affida all’oste perché lo curi. «Non manca nulla», diceva, «a quello che potremmo chiamare “progetto globale di risanamento”». Infine c’è l’intervento “dell’ora prima”, non registrato dal Vangelo, ma che don Tonino ipotizzava così: «Se il samaritano fosse giunto un’ora prima sulla strada, forse l’aggressione non sarebbe stata consumata». Di qui, diceva al politico, ma la predica era per tutti, laici e religiosi: «È necessario che egli ami prevenendo i bisogni futuri, pronosticando le urgenze di domani, intuendo i venti in arrivo, giocando d’anticipo sulle emergenze collettive».

E parlava anche di discernimento dei segni dei tempi, don Tonino: «Intuizioni delle grandi utopie che irrompono nell’oggi e diventano già carne e sangue, percezione della pace come frutto della giustizia». C’è, in quella lettura del Vangelo, la sintesi programmatica del suo “farsi prossimo”: la fedeltà alla Chiesa, l’attenzione all’uomo e ai suoi bisogni come riflesso dell’amore di Dio, la disponibilità al servizio, la costruzione di una teologia della pace, radicata nella logica non violenta del Vangelo, l’ascolto, il dialogo, il valore dei segni («il potere dei segni», distingueva, «non i segni del potere»).

Quei segni che egli aveva seminato lungo il suo cammino, ai quali affidava le sue speranze di crescita, come lievito per la comunità: il centro teologico di lettura a Tricase, la cooperativa editoriale “La meridiana” a Molfetta, la Casa, comunità di accoglienza per i tossicodipendenti di Ruvo, il Centro di accoglienza di Molfetta. E i segni forti, che ancora oggi sorprendono per l’audacia e la profezia: non solo i senza casa in vescovado, le porte aperte a tutti gli sconfitti, senza eccezione, le sfide agli egoismi anche della comunità cristiana; ma le marce, le veglie, le provocazioni al potere quando si trattava di difendere i diritti dei profughi albanesi sulle coste pugliesi [*in aggiornamento*] o denunciare la militarizzazione crescente della sua regione [*in aggiornamento*]; e le manifestazioni non violente con i Beati i costruttori di pace, fino alle laceranti polemiche sulla guerra del Golfo del 1991 [*in aggiornamento*] che gli procurarono ferite e incomprensioni forse mai più rimarginate.

Filodemo Jannuzzelli, che fu segretario nazionale di Pax Christi dall’87 all’89 e poi vicepresidente fino al 1993, ha rivelato l’anno scorso, ricordando ad Alessano la “quarta Primavera di don Tonino”, che nel pieno della crisi del Golfo, sette anni fa, dopo l’ultimatum americano a Saddam Hussein, monsignor Bello voleva raggiungere Baghdad per interporsi come ostaggio volontario in caso di guerra. Non trovò l’appoggio necessario e dovette desistere, vivendo poi come una sconfitta personale quella “Tempesta nel deserto” che sconvolse il mondo. Chissà oggi come avrebbe incoraggiato e accolto con gioia la missione di pace di Kofi Annan in Irak. La marcia della pace gli riuscì l’anno dopo a Sarajevo, quando con altri cinquecento volontari andò a portare nella martoriata città della ex Jugoslavia un messaggio di riappacificazione e di speranza. Era ormai devastato dal male e allo stremo delle sue forze e quel viaggio sublimò la sua profezia di pace.

Il tempo va rimarginando ferite e addolcendo rimpianti. La sua città ha ritrovato energie, sta per nascere una “scuola di pace”; la profezia di don Tonino germoglia nella memoria della sua Chiesa, tra gli amici e la gente che lo ha incontrato. Non pochi vanno scoprendola nei suoi scritti, sorprendenti per freschezza e attualità. Le sue opere, anche se con qualche difficoltà, continuano. C’è una Fondazione che porta il suo nome e che si propone di tener viva la sua memoria con studi e attività culturali. In molte case, in molti locali pubblici di Molfetta, di Tricase e di Alessano non è insolito vedere la sua fotografia appesa al muro, accanto agli eroi dei nostri giorni. Sulla bocca di alcuni torna a sussurrarsi la parola “beatificazione” [*in aggiornamento*], come all’indomani della sua morte. Stanno per compiersi i cinque anni previsti dalla procedura canonica. Ma la curia di Molfetta attenua gli entusiasmi: «Diamo tempo al tempo. Occorre che le cose sedimentino».

Claudio Ragaini, 22 aprile 1998


Trascrizione online | A cura della  Redazione dontoninobello.info


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Don Tonino Bello | Parabole moderne | La parabola del buon samaritano.

Cosi’ don Salvatore Leopizzi ricorda don Tonino Bello, “samaritano dell’ora prima”, nel 16° anniversario del dies natalis (* Mosaico di pace, 20 aprile 2009)

«[…] Mi è tornata in mente un’immagine spesso usata da don Tonino Bello… L’immagine è quella del Samaritano che, nel suo farsi prossimo del viandante assalito dai briganti e abbandonato quasi morto sul ciglio della strada, diviene l’emblema universale dell’umana compassione e della disinteressata pietà. / Il Samaritano, secondo il racconto evangelico, interviene nell’ “ora giusta” e anche nell’ “ora dopo”. Si ferma davanti al malcapitato e, commosso, si fa carico della sua sofferenza, gli fascia le ferite, lo porta al più vicino pronto soccorso, perde un po’ del suo prezioso tempo, paga di tasca propria le cure immediate e anche quelle per la successiva riabilitazione. / Non c’è che dire. Il Samaritano è ancora oggi l’icona più eloquente di ogni nostro discorso sulla misericordia e sulla cristiana carità. Per questo egli merita di essere sempre accompagnato e preceduto dall’aggettivo “buono”. Lo conosciamo tutti, infatti, come il buon samaritano.

Ma don Tonino, mostrando anche qui la sua finezza spirituale e la sua genialità profetica, era solito richiamarci all’urgenza di un altro intervento samaritano, quello dell’ “ora prima”. Diceva, ad esempio, rivolgendosi una volta ai responsabili della vita pubblica e delle istituzioni:

“C’è, infine, l’intervento dell’ora prima, non registrato dal Vangelo, ma che è lecito ipotizzare in questi termini: se il samaritano fosse giunto un’ora prima sulla strada, forse l’aggressione non sarebbe stata consumata. Io penso che la “misericordia” cioè la “compassione del cuore” nel politico deve diventare anche “compassione del cervello”. E allora è necessario che egli ami prevedendo i bisogni futuri, pronosticando le urgenze di domani, intuendo i venti in arrivo, giocando d’anticipo sulle emergenze collettive, utilizzando il tempo che ordinariamente spreca nel riparare i danni, a trovare il sistema per prevenirli… (* MISTICA ARTE, lettere sulla politica, la meridiana, pag. 29) […]»

  1. * Famiglia Cristiana, n.13, 8 aprile 1998 – I doni dello Spirito Santo, Pietà