Carissimi,
tra le cose forti che oggi stanno emergendo nella coscienza cristiana, c’è il convincimento che i piedi dei poveri sono il traguardo di ogni serio cammino spirituale.
Abbiamo capito un po’ tutti, cioè, che quando Gesù si curvò sulle prosaiche estremità dei suoi discepoli, più che offrirci il buon esempio dell’umiltà, volle soprattutto farci vedere, attraverso i moduli espressivi del servizio, verso quali basiliche avremmo dovuto ormai indirizzare i nostri pellegrinaggi.
Se, però, almeno in teoria, non si fa più fatica ad ammettere nel povero la presenza privilegiata di Dio, stentiamo ancora a capire che i piedi di Pietro sono il primo santuario dinanzi al quale dobbiamo cadere in ginocchio.
In termini di servizio, è ovvio. Non in termini di ossequio: ché di questo, anzi, ce n’è fin troppo nei confronti del «pescatore».
Sì, ce l’ha fatto capire Gesù: anche Pietro è un povero.
Oggi più che mai.
Anzi, per usare la terminologia corrente, appartiene alla classe degli ultimi.
Noi non ce ne accorgiamo più, a furia di difendere la tesi del «primato» di Pietro, abbiamo perso di vista che egli è il capostipite di quell’«ultimato» di poveri verso cui Gesù ha sempre espresso un amore preferenziale.
Sta di fatto, comunque, che, benché gli accoliti gli lavino ostentamente le mani nei pontificali solenni, i piedi, però, non glieli lava nessuno. O almeno, sono rimasti in pochi quelli che riservano per lui l’amoroso gesto del Signore, dettato da amicizia senza lusinghe e suggerito da tenerezza senza adulazioni.
I più gli baciano «la scarpa», o la «sacra pantofola», come si diceva una volta.
In tanti vanno anche «ai piedi dell’Apostolo».
Magari «provoluti», per dirla alla latina.
Ma senza brocca, catino e asciugatoio.
Del resto, come farebbero a portarli, questi arnesi del servi-zio, se «provoluti» è un termine di raffinata cortigianeria che, tradotto in italiano, significa «striscianti nella polvere»?
Povero Pietro. Forse sta scontando ancora gli effetti di quella iniziale resistenza, quando, sottratto l’umido calcagno alla presa del Maestro, contestò caparbiamente: «Non mi laverai mai i piedi!». La sua voleva essere un’affettuosa protesta rivolta al Maestro. Ed è divenuta un’amara profezia rivolta al popolo dei suoi condiscepoli.
Carissimi fratelli, se vi scrivo queste cose è perché temo che, a Pietro, oggi non gli si voglia molto bene.
Come se non bastasse il peso del mondo, gli incurviamo le spalle sotto il fardello delle nostre risse fraterne.
Anche se in teoria non viene discusso il suo prestigio, la sua parola non viene sempre accolta con l’attenzione e con l’obbedienza che merita colui che ha ricevuto da Cristo l’incarico di confermare i fratelli nella fede. E non avviene di rado che, urtando le nostre barche sui fondali dell’accomodamento, i suoi inviti a prendere il largo vengono interpretati come involuzioni e chiusure.
Cadiamo una buona volta ai piedi di Pietro.
Non per adorarlo, come fece il centurione Cornelio.
Ma per lavarglieli, quei piedi. Oggi, specialmente, che sono così stanchi per il tanto camminare sulle strade del mondo.
Facciamogli sentire il tepore dell’acqua. Prendiamo l’asciugatoio che ha i profumi casalinghi dello spigo e delle melecotogne. Forse, mentre lo rinfrancheremo dalle sue fatiche con i gesti della tenerezza, cadute certe teorie puritane sullo spreco delle sue itineranze, ripeteremo pure noi i versetti di Isaia: «Come sono belli i piedi dei messaggeri che annunciano la pace!».
Facciamoci raccontare, attorno a deschi fraterni, le meraviglie operate dal Signore sulle piazze, come accadeva un tempo, quando la gente accorreva da ogni parte conducendo gli ammalati perché, «al passaggio di Pietro anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro».
Diamo cadenze d’amore trepido alla nostra implorazione, come avveniva un tempo quando «era tenuto in prigione, e una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui».
Stiamogli vicino, a questo fratello ultimo, che forse più di ogni altro ha bisogno della nostra carità.
Forse, mentre l’acqua tintinnerà nel catino, egli proverà tanto ristoro dalla nostra appassionata premura, che ci mormorerà all’orecchio, come quella sera fece con Gesù: «Non solo i piedi, ma anche le mani e il capo»
19 febbraio 1989
* Audio Teca | DTB Channel & Fondazione Don Tonino Bello
Trascrizione (audio) online | A cura della Redazione dontoninobello.info
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Ecco ciò che Don Tonino (che nell’ottobre del 1980 era parroco a Tricase (Lecce)) scrisse nell’imminenza della visita pastorale che Giovanni Paolo II compì ad Otranto – il 5 ottobre 1980 – per rendere omaggio agli 800 martiri della città, nel V centenario della loro uccisione:
«È venuto Giovanni Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: ecco un mangione e un beone…».
La gente trova sempre da ridire. Ai tempi di Cristo, come ai nostri tempi. Qualunque cosa si faccia. Venticinque anni fa si diceva che, invece che pontificare dalla torre d’avorio del Vaticano, il Papa, anche se vecchio, avrebbe fatto meglio a girare il mondo per conoscerne i problemi. Oggi che il Papa è giovane e corre da un punto all’altro della terra, ci si lascia sorprendere dalla nostalgia di un Papa sedentario!
«Perché questo spreco di unguento? Si poteva vendere a caro prezzo e darlo ai poveri…».
I noiosi contabili della carità stanno in agguato dappertutto. E dalla casa di Simone il Lebbroso sgusciano fino ai nostri giorni mormorando: «Quanto spreco di denaro per un Papa che viene! Sarebbe meglio investirlo in opere utili per la povera gente!». Ma è probabile che la povera gente non sappia che farsene dei calcoli di questa gelida computisteria. Ed è ancora più probabile che disprezzi in cuor suo l’ipocrisia di coloro che, fingendo di ignorare le infinite occasioni mancate per il riscatto sociale di questa provatissima terra, vorrebbe privarla oggi dell’onore di ospitare, sia pure per un giorno, un così illustre pellegrino.
«C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo… e tutta la folla cercava di toccarlo…».
Il Vangelo tace: ma non è difficile immaginare il coro delle farisaiche disapprovazioni nei confronti di Gesù: «La gente gli corre dietro. Li ha stregati tutti! Sono come pecore…». Oggi, per un Papa che galvanizza le folle, il vocabolario è più raffinato, ma non meno gravido di sospettosa acrimonia. Si parla di trionfalismo, di plagio di massa, di transfert, di inconsci processi di identificazione, di tecniche del consenso…
Il fatto è che sfuggono a molti i misteriosi equilibri che sottostanno alla vita della Chiesa. Un «osanna» è stato già pagato con cento «crucifige». Di fronte a un Cristo applaudito dalle folle, c’è un Cristo che muore nella solitudine più nera. E oggi, alle spalle di un Papa acclamato dalla gente, c’è il sacrificio di Ottocento Martiri che giustifica, pareggia e sopravanza tutti gli evviva del mondo.
«Benedetto colui che viene nel nome del Signore…».
Ma che cosa viene a fare il Papa qui da noi? Che senso ha il suo viaggio in Terra d’Otranto? Sarà un omaggio al folkore? Sarà una concessione all’accademia festaiola? Sarà un momento di enfasi celebrativa? Sono gli interrogativi che tornano più insistentemente in questi giorni e ai quali bisognerà attendere la conclusione del viaggio di Giovanni Paolo II per dare una risposta.
A chi è allenato, comunque, a scorgere il filo che sottende i grani di questo rosario di viaggi compiuti dal Papa, non è difficile intuire le ragioni di questa discesa pontificia nel nostro profondissimo Sud. Il desiderio di rendere omaggio agli ottocento Martiri, ma anche alla terra che li ha espressi. L’ansia pastorale di restituire freschezza alla fede delle nostre genti, caricandola di una valenza che stimoli all’impegno, al cambio, al rinnovamento. La volontà di privilegiare e di stimolare alla speranza un popolo povero, di cui i potenti della terra non sembra tengano gran conto. La prospettiva di investire di una vocazione ecumenica le nostre Chiese salentine, geograficamente e culturalmente le più protese a Oriente.
Riusciranno le comunità ecclesiali di Terra d’Otranto a dare nitidezza a questi propositi del Papa e a evitare, agli scettici di casa nostra, l’insinuarsi del dubbio che la sua visita venga davvero compiuta «nel nome del Signore?».
«Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi…».
Vorremmo che, sollevandosi in aereo per partire dalla nostra terra la sera del 5 ottobre, il Papa potesse pregare così: «Benedici, Signore, questo popolo dignitoso e forte, travagliato da secolari ingiustizie, ma abituato a soffrire e a morire in piedi, come il martire Primaldo. Fa’ che conservi sempre la sua dignità e che, per un pezzo di pane, non accetti mai il baratto di piegarsi dinanzi a nessun pascià della terra. Donagli un futuro carico di promesse. E liberalo dalla retorica dei suoi capi. Amen!».
* don Tonino Bello, ottobre 1980.
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